L’obbedienza, nel Sahel, non è più una virtù
Don Lorenzo Milani l’aveva scritto in una lettera ai cappellani militari. Che l’obbedienza, da tempo, non sia una virtù potrebbe sembrare scontato. Da noi e nel nostro piccolo, nel Sahel, questo lo mettiamo in pratica. Disobbediamo ai comandamenti rivelati dell’economia e crediamo invece nella polvere che, coltivata con perizia, prova a inceppare il meccanismo neocoloniale. I primi a disobbedire sono i migranti, non per caso definiti dal consesso del potere, ‘irregolari’ e cioè disobbedienti. Inseguono l’utopia e, a modo loro, sfidano la favola dominante delle uguaglianze che la globalizzazione avrebbe dovuto importare dal commercio totale. Poi a disobbedire sono i membri della società civile per aver rifiutato di farsi comprare dal sistema. Alcuni sono in carcere, altri esiliati e altri ancora scomparsi per sempre nel vento della dimenticanza.
La disobbedienza, qui da noi, è scritta dalla sabbia. Si declina col verbo ‘dignitare’ che balbettano solo i poveri che sono espulsi dalla scuola di stato e non hanno i soldi per pagarsi quell privata. E’ il verbo che le donne del Sahel stanno coniugando da decenni nel loro corpo e sul volto dei loro figli. Disobbediscono all’ordine di sparizione organizzato dai grandi istituti di normalizzazione che vanno sotto il nome di ‘triade’. Assurda ed empia trinità che il Fondo Monetario, la Banca Mondiale e le Nazioni Unite perpetrano nell’impunità come norma di amnistia globale. Non diranno niente, perché ai poveri hanno da sempre confiscato la parola. Allora rimane lo scritto, trovato nelle tasche di un eritreo disobbediente, ormai sepolto nell’italica terra. Lui, di nome Tesfalidet, è morto il giorno dopo il suo sbarco a Pozzallo il 12 marzo scorso. Vive ancora nelle sue poesie.
Il foglio trovato nella tasca di Segen è scritto in tigrino con l’inchiostro di salsedine. Segen è il soprannome dovuto alla magra mansuetudine di colui che ha disobbedito al decreto di guerra permanente del dittatore eritreo Isaias Afewerki. Un codardo, l’avrebbero definito nella patria che questo nome non merita da decenni. Segen è disobbediente fino a morire di tubercolosi trasmessa nei campi di detenzione migrante nella Libia degli accordi commerciali. Almeno lui, è sta anche lì la sua gloria di sale, non è morto di viltà come accade all’Occidente e a coloro che si fidano delle sue promesse. Chi ha trovato le poesie di Segen, nome di donna in Eritrea, ha promesso di consegnarle alla madre. Non servirà se nel frattempo non avremo imparato e insegnato a recitare, con dignità, il verbo disobbedire ai nostri figli.