John, una vita senza terra nella precaria abolizione della schiavitù
Suo padre somalo si era rifugiato negli Stati Uniti. John è nato, da madre americana, il primo giorno del mese di gennaio del 1989. All’ètà di cinque anni accompagna suo padre, commerciante, in Costa d’Avorio. Rimane nel Paese fino alla morte di suo padre, ucciso durante la crisi che ha seguito le elezioni presidenziali del 2011. Si salva nel vicino Mali e di lì continua fino in Algeria per poi raggiungere il Marocco. Cerca lavoro e trova solo un documento che lo riconosce come rifugiato. Il tentativo di passare in Spagna col gommone naufraga ancora prima di cominciare. Allora John torna in Algeria dalla quale è espulso dopo aver lavorato qualche mese, come buona parte dei migranti, in un cantiere edile. Si trova a Niamey da poco, col documento sopra citato delle Nazioni Unite, inutile per dargli qui un qualsiasi aiuto. Suo padre si chiamava Ali. Di sua madre, che vorrebbe poter rintracciare, non sa nulla. Ricorda solo che si chiama Kelly Brown e nessuna istituzione ha potuto, finora, ritrovarla. John è dalla nascita che cerca una terra d’asilo.
I capri, nella sola Niamey, sono stati sacrificati a centinaia di migliaia. La festa della Tabaski ricorda un sacrificio sostitutivo. Il capro ha preso il posto del figlio di Abramo che, secondo la tradizione biblica, avrebbe dovuto essere sgozzato. Gli animali, dopo essere stati uccisi, sono aperti e trafitti con legni incrociati a rosolare per ore. Sembrano dei crocifissi allineati attorno al fuoco a seconda del numero e dell’importanza del proprietario. Qui, almeno, i sacrifici sono ben visibili lungo les trade e nei cortili delle case. Ben altri, invece, i sacrifici nascosti agli occhi del mondo, che come per John, hanno il sapore di una guerra senza fine. Milioni di rifugiati, accampati in tende, case di fortuna o per anni, ostaggi dell’aiuto internazionale. Sacrificati da potenti, fabbricanti di armi o dalla lotta per il potere di qualche ‘signore della guerra’. Invisibili, come le migliaia di migranti ‘economici’che, ritenuti senza documenti, sono detenuti in centri di repressione dell’umana mobilità. Una schiavitù che continua sotto mentite spoglie.
Oggi, nel secondo giorno della festa, cade la memoria della tratta negriera e della dichiarazione dell’abolizione della schiavitù. Era infatti nella notte tra il 22 e il 23 agosto del 1791 che iniziava, nell’isola di Santo Domingo, oggi Haiti e Repubblica Domenicana, la prima grande ribellione riuscita degli schiavi. I fermenti della rivoluzione francesi erano diventati merce d’esportazione anche grazie a chi aveva fatto esperienza della schiavitù, Toussaint Louverture. Due anni dopo la schiavitù sarebbe stata formalmente abolita e Haiti sarebbe diventato il primo paese’ nero’ a gustare il frutto aspro e dolce dell’indipendenza. L’abolizione è ancora in atto e così pure la schiavitù che sembra oggi godere di buona salute. Gli schiavi esistono e non sempre nell’invisibilità nella quale si vorrebbe siano tenuti. Le rotte delle schiavitù cambiano, si globalizzano e si adattano alle mutate circostanze dell’economia di rapina che caratterizza il nostro tempo. Una schiavitù che, a volte è volontaria, barattata in cambio di un’effimera sicurezza.
John invece no. Dall’inizio si trova senza terra, senza padre e con la madre che forse aspetta un suo ritorno. John non baratta la sua libertà e non la svende al miglior acquirente. Di padre somalo e di madre statunitense dice di essere nato il primo giorno dell’anno in cui sarebbe caduto il muro di Berlino. Dalla guerra fredda si sarebbe passati a quella a tutto campo condotta da terzi con le armi dei primi. Gli stessi che decidono le guerre e le paci interessate al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. John è il grido di una terra in cerca d’autore. Si affida ad un improbabiledocumento che attesta ciò che gli altri non sanno. Rifugiato permanente tra la nascita che non ricorda e il volto di sua madre che ancora lo accompagna. John è una parabola vivente dell’assurdità di pensare alle radici come definizione dell’umano. Riparte con una esigua borsa scura di finta pelle che custodisce il documento plastificato della sua precaria identità. Rifugiato senza terra nella speranza di trovare, un giorno, la sua madre terra.
Mauro Armanino, Niamey, 23 agosto 2018