Del buon uso dei poveri nel Sahel e le frontiere dell’Europa
Sono degli attivatori di solidarietà spicciola, di slancio samaritano, di un’enormità di incontri e tavole di concertazioni per coordinare gli aiuti. I poveri sono funzionali al sistema perché gli permettono di continuare a funzionare senza che nulla cambi nei meccanismi di cancellazione delle cause della loro presenza. Prendete ad esempio i migranti, categoria costitutiva dell’umana civilizzazione i cui contorni sono stati definiti, resi ideologicamente pericolosi e per finire, confinati negli studi e analisi degli specialisti. Aumentano il patrimonio accademico delle facoltà più illuminate, producono testi, articoli e organizzano conferenze. Del tutto irrilevanti quando coloro che decidono le politiche che li riguardano, solo ascoltano i risultati dei sondaggi per guadagnare consensi nelle prossime elezioni. Si scopre poi l’interminabile lista dei benefattori profittatori delle citate politiche repressive. Corridoi umanitari, telefoni per allarmi, medici senza frontiere e del mondo, caritas, l’organizzzazione per le migrazioni internazionali,la croce rossa internazionale, locale e danese, interventi mirati per lenire le innumerevole ferite di coloro che ancora osano avventurarsi nel deserto e le scelte politiche che confermano il confinamento dei poveri il più vicino possibile al luogo di nascita. Se l’azione umanitaria non trova il corrispettivo in scelte politiche rispettose dei diritti umani non fa che che assicurare il servizio ambulatorio perenne del sistema.
L’accordo di cooperazione con la Libia, recentemente rinnovato e del quale si sono saputi con più di dovizia i particolari, è un’espressione in più di inutili velleità umanitarie (salvare vite umane dai naufragi) per giustificare l’assetto mafioso repressivo delle milizie libiche incaricare di fare il lavoro ‘sporco’ con vernice umanitaria. I centri non sono che lager e non fanno che confermare quanto il géografo Philippe Rakacewicz, in un recente intervento pubblicato da ‘Convergenze Migrazioni’, ha evidenziato con grafica lucidità. ‘Siccome l’accesso all’Europa è ristretto da misure ogni volta più repressive per i migranti, un gran numero di questi muoiono nell’anonimato alle porte del continente’, sottolinea. D’altra parte il modo stesso di interpretare le migrazioni è tutt’altro che neutrale. Parlare di ‘clandestini’, ‘illegali’, ‘irregolari’ conduce, come altre volte sottolineato, a criminalizzare la figura e la persona del migrante e ciò consente alle autorità di giustificare la violenza delle politiche adottate per ‘controllare’ la mobilità. Sono da considerare autentici criminali coloro che mettono in opera le misure di detenzione, confinamento ed eliminazione indiretta di persone il cui solo ‘delitto’ è quello di mettere in pratica il diritto umano fondamentale alla mobilità. L’autore sopra citato propone di considerare la strategia ‘sicuritaria’ dell’Europa a tre frontiere.
La prima frontiera è quella determinata dallo spazio/linea Schengen, di cui il mare, i reticolati e muri a Ceuta e Melilla, con le detenzioni nelle isole dell’Egeo ne costituiscono la rappresentazione più ‘mortale’. I deceduti e gli scomparsi si contano a migliaia e le ferite alla dignità umana sono incalcolabili. La seconda frontiera o la ‘post-frontiera’ è quella dei campi di internamento e i centri di identificazione, espulsione e comunque di controllo poliziesco. Costituiscono un fattore di inquietante analogia con i tristemente noti campi di eliminazione di cui si è recentemente fatto memoria in Europa. Infine troviamo le ‘pre-frontiere’ che sono la visibile incarnazione degli accordi con Paesi Terzi per le reammissioni degli indesiderabili e della retenzione di coloro che oserebbero varcare le ‘Colonne d’Ercole’ dell’Unione Europea. Essa si materializza soprattutto con atti politici di ‘cooperazione’ bilaterale o in termini di finanziamenti promessi o già avvenuti per controllare, filtrare o interrompere la libera circolazione delle persone. Proprio di queste frontiere e del loro uso contro i poveri che è questione di un brano diffuso in questi giorni in alcuni media della Turchia, ideato dal musicista siriano curdo Huseyin Hajia dal titolo ‘Musica Rifugiata’.
‘Non siamo altro che pezzi di rifugiati/nelle tue piazze, strade e viali/se elemosiniamo, perdonaci/nei tuoi luoghi di lavoro, officine e campi/se siamo lavoratori illegali, perdonaci/se i nostri cadaveri urtano le tue coste o le tue spiaggie/Chi sono io per lamentarmi?/siamo annegati nelle lacrime di coccodrillo/
E’ questa la frontiera interiore. La più pericolosa perché quella che genera tutte le altre. E’ dunque la prima da smantellare.
Mauro Armanino, Niamey, febbraio 2020